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Quando alla base di una catastrofe naturale v'è la responsabilità umana, come nel caso in questione, è indubbio che il danno sociale prodotto sia considerevolmente maggiore; un incidente di tipo tecnologico, e quindi gestito dall'uomo, comporta una chiara responsabilità umana rispetto ad un evento naturale. Conflitti sociali ed emotività hanno assunto, con l'accertamento dell'evitabilità della tragedia, aspetti gravi e drammatici, che si sono ulteriormente accentuati per via del lungo corso giudiziario. Il fatto poi di aver perso quei riferimenti fisici e simbolici dell'ambiente di vita è una delle cause che ha comportato un maggior attaccamento alla comunità, soprattutto nei primi momenti di emergenza e di riabilitazione. La ricostruzione successiva, poi, diventa desiderio di riproporre come prima e nel |
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luogo di prima quegli elementi fisici che diventano così simboli di storia e di vita del paese. Il senso di appartenenza territoriale, basato sulle esperienze di vita e quindi sui ricordi passati, è rimasto, per i primi tempi, l'unico collante vero dei sopravvissuti. Questi infatti, oltre a perdere familiari e parenti, case e terreni, hanno perso la maggior
parte delle relazioni sociali, con la scomparsa degli amici, dei conoscenti, dei vicini, in una parola della "comunità". La ricostruzione sociale dunque, certamente non meno importante di quella edilizia ed economica, è stata un processo che ha comportato tempi molto lunghi e la pianificazione di un nuovo paese, come in parte è stato per Longarone, senza prendere in considerazione la cultura ed il modo di vita degli abitanti locali, ha reso tutto più complicato. Il senso di appartenenza al luogo, dunque, si è rafforzato per coloro che vivevano in paese prima del 1963; per i cittadini nati successivamente e soprattutto per i nuovi immigrati l'attaccamento è minore sia per il fatto di non aver vissuto in prima persona la tragedia che per un generale disinteressamento all'identità locale che purtroppo, in questi anni, coinvolge le nuove generazioni. |
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Scriveva Giuseppe Capraro in un suo saggio Longarone 1963-1973 - Sociologia del disastro e della ricostruzione: "Non è facile ambientarsi a Longarone; dopo dieci anni dal Vajont non si ritrova più il clima dei primi tempi........ Il centro è diventato terra di nessuno; gli incontri sono frettolosi; non ci si conosce più....... ciascuno ha il suo programma e lo segue senza confrontarlo con gli altri....... Quando ritornano a Longarone per due o tre giorni di ferie si sentono spaesati: l'hanno lasciata solo da qualche anno e a differenza di altri che l'hanno oramai dimenticata, essi provano per il paese ancora affetto ed interesse; vorrebbero comportarsi come prima; salutare quello, giocare a carte con l'altro, fermarsi a bere un bicchiere in compagnia, discutere dei problemi da risolvere....... Essi però corrono il rischio di passare per gente che si interessa troppo degli affari altrui, oppure di essere sommersi da un mare di chiacchiere e di pettegolezzi sul tale o il talaltro, che puzzano di faziosità e di partigianeria........ Ci si è forse tanto preoccupati tanto delle case, delle piazze, degli edifici pubblici, ed era giusto fare così, perché tutto era stato raso al suolo, ma non si è dato sufficiente peso alla ricomposizione delle relazioni sociali, a quell'intreccio di legami che si allacciano inevitabilmente tra persone e gruppi che abitano lo stesso luogo e lavorano negli stessi ambienti". |
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